Romanzo scritto tre anni dopo “Il tesoro”, nel 1899.
Dall’incipit del libro:
I.
Un giorno d’autunno, ritornando da una caccia in palude, don Stefano Arca fu assalito da febbre così violenta che quasi batté la fronte sul lastrico del cortile quando, giunto a casa, smontò da cavallo. A stento si mise a letto.
«Stene, Stene, cos’hai avuto?», gli chiese il vecchio padre, avvicinandosi a piccoli passi incerti, e chinandosi a mani giunte sul letto.
Nel far con esile voce l’ansiosa domanda, la piccola persona del vecchio tremava. Stefano, con gli occhi chiusi e il volto grigio, non rispose; don Piane restò a lungo davanti al letto, sempre più curvandosi, con le dita nodose intrecciate, e le pupille velate da una triste visione di morte.
Dopo qualche istante si mosse; sempre con i passi incerti delle sue esili gambe che lasciavano vuoti e rigonfi sui ginocchi i pantaloni di panno nero lucente, attraverso la corsìa rossa e socchiuse gli sportelli del balcone.
Una tenue e dolce penombra si diffuse subito per la camera; al disopra del rosso panneggio delle tende, su cui si contorceva una testa di drago color d’oro, tremò, stendendosi sul grigio soffitto, un ventaglio di luce a raggi bianchi, la cui striscia centrale s’avanzava soavemente fin sopra il letto di Stefano. E don Piane, tornando indietro e sedutosi su un’antica seggiola dall’alta spalliera a punta, s’affissò in quella striscia di luce e s’abbandonò al suo tormentoso pensiero.
Sarica il libro: