“Il capitano della Djumna”, pubblicato nel 1905, è uno dei molti romanzi di Salgari non appartenente ad alcun ciclo anche se, volendo, si potrebbe mettere in un ipotetico ciclo delle “Avventure in India” insieme a “La Montagna di luce” e a “La perla sanguinosa”.
Dall’incipit del libro:
LE OCHE EMIGRANTI
Un sole ardente, infuocato, si rifletteva sulle giallastre e tiepide acque della profonda baia di Port-Canning, esalanti quei miasmi fetidi che scatenano così di sovente febbri tremende, mortali per gli europei non acclimatizzati, e peggio ancora, il cholera, così fatale alle guarnigioni inglesi del Bengala.
Non un soffio d’aria marina mitigava quel calore che doveva toccare i 40 e forse più gradi. Le grandi foglie piumate dei cocchi, d’aspetto maestoso, disposte a cupola, o dei pipal, o dei nium, o dei palmizi tara, o quelle lunghe e sottili dei bambù, pendevano tristamente, come se quel sole le avesse bruscamente private dei loro succhi.
Il silenzio poi che regnava su quelle acque e su quelle isole fangose che si distendevano verso il golfo del Bengala, era così triste, che produceva una profonda impressione. Pareva che tutto fosse morto in quell’estrema regione della più ricca e della più vasta provincia dei possedimenti inglesi dell’India.
Pure, malgrado quella pioggia di fuoco, e malgrado i miasmi che s’alzavano da quei bassifondi sui quali imputridivano enormi ammassi di vegetali, una piccola scialuppa coperta da una tenda bianca, navigava lentamente fra quelle isole e quei banchi di sabbia e di fango, ma con una certa precauzione.
Due uomini, uno che stava seduto a prora tenendo in mano un fucile a doppia canna e un altro a poppa che manovrava dolcemente un paio di quei corti e larghi remi detti pagaie, la montavano.
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