“Il capitano Tremalaterra” di Giulio Bechi

Romanzo “giocoso” pubblicato nel 1920.

"Il capitano Tremalaterra" di Giulio Bechi.
“Il capitano Tremalaterra” di Giulio Bechi.

Dall’incipit del libro:

PROLOGO.

Il cavaliere Ildebrando Cappadona, che reggeva, or è gran tempo, un piccolo distretto dell’Italia Centrale, era uno di quei soldatoni squadrati all’antica di cui oggi si è quasi perso lo stampo; un burberone dal cuor di leone e dal cervello di gallina che, in circostanze ordinarie, sarebbe stato un eccellente caporal maggiore: –le campagne – da lui guerreggiate stando sempre in riserva – e la fortuna dei tempi ne avevano fatto un colonnello.

Si gloriava di aver servito per vent’anni nei bersaglieri; ma poi la gotta che gl’impediva di andare a piedi e un incomodo, su cui sorvoleremo, che gli vietava di montare a cavallo, gli avevano procurato con suo sommo cruccio quel comando sedentario.

Egli amava l’ordine, le camerate ben assestate, le brande, i soldati, le piante del giardino ben allineati. Anche le domestiche che governavano la sua casa erano disciplinate militarmente, soggette a un orario reparto, con sveglia, rancio, uscita a turno, silenzio, tutto a ora fissa: i segnali di tromba della vicina caserma avevano per esse un linguaggio corrispondente. Perfino le uova, onde lo provvedeva copiosamente un pollaio modello, erano da lui schierate a plotoni sopra un graticcio della dispensa, dopo aver segnato sul guscio il giorno e l’ora di fabbricazione: e guai se, nel consumo, l’ordine di anzianità non era scrupolosamente osservato. Non era mica un turlo lui!

Per Cappadona l’umanità si divideva in due categorie, quasi in due razze: quelli come lui che non se la lasciano fare, che fanno rigar diritto e incutono il rispetto, il timore, l’ossequio…, e gli altri. Gli altri erano i turli. I deboli, costretti a obbedire senza poter comandare, i semplici che si fanno metter nel sacco dai furbi, i docili, i pazienti, i rassegnati, tutti i poveri diavoli, infine, erano i turli.

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