Romanzo del 1851.
La storia della baleniera Pequod comandata dal capitano Achab a caccia di cetacei e, soprattutto, della balena bianca (in realtà un capodoglio) che da il titolo al libro.
Questa è la prima traduzione italiana curata da Cesare Pavese nel 1941 (sua anche la prefazione al libro).
Dall’incipit del libro (prefazione di Cesare Pavese):
PREFAZIONE
Tradurre Moby Dick è un mettersi al corrente con i tempi. Il libro – ignoto sinora in Italia – ha tacitamente ispirato per tutta la metà del secolo scorso i maggiori libri di mare. E da qualche decina di anni gli anglo-sassoni ritornano a Melville come a un padre spirituale scoprendo in lui, enormi e vitali, i molti motivi che la letteratura esoticheggiante ha poi ridotto in mezzo secolo alla volgarità.
Herman Melville, nato a New York nel 1819 da una famiglia antica e nobilesca, morì a New York nel 1891, dopo essere passato anche per gli impieghi statali, immiserito, sconosciuto e sdegnoso. Ma queste sue infelicità non ci toccano. È la solita sorte dei grandi, su cui piace ai posteri spargere eloquenza, salvo poi a trattare anch’essi i contemporanei nell’antichissimo modo. Questa infelicità di Melville anzi ha avuto qualche parte in Moby Dick. Benvenuta, quindi. Poi bisogna ricordare i quattro anni della giovinezza passati su navi baleniere e da guerra, nel Pacifico, nell’Atlantico, tra cacce, tifoni, bonacce e avventure d’inferno o d’arcadia, tutta materia che è stata colata, con un lento lavoro di assimilazione, nelle opere.
E l’arcadia c’è in Typee, c’è in Omoo, c’è in Mardi, le storie ispirate dai mesi di vita che l’autore condusse in comune coi cannibali di un’isola oceanica. L’inferno è in White Jacket – spigliato e spietato giornale della vita di bordo su una nave da guerra – e in Pierre, una truce storia morale fallita, che serve a mostrare a quale prezzo e con quali fatiche l’autore di Moby Dick sia giunto al capolavoro.
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